Verso l’altrove. Un ripercorso antologico delle opere di Licia Galizia

di Francesco Moschini | 2007

Licia Galizia ci ha abituati, fin dal suo esordio come artista, ad una coerenza tematica, metodologica e formale rimasta immutata fino ad oggi. Ma ci ha soprattutto abituati ad una serrata dimensione concettuale, ad una dialettica tra polarità opposte, lucidamente concatenate, mai diluite dal puro “piacere del testo”. Il tutto, semmai è stato arricchito, nel corso del tempo, dalle bellezze impreviste, dagli scatti improvvisi di azzardi fulminei che costituiscono, volta per volta, la novità , sia pur non perseguita come tale, nella fissità della sua ricerca. Fissità certo, come fissazione artistica, come “daimon”, non come immutabilità, poiché anzi, il suo lavoro si è andato sempre più contaminando con altri elementi “estranei”, dalla parola, alla musica giù sino all’improvvisazione neo-dada ma sempre col fermo proposito che le sue investigazioni-sollecitazioni dovessero comunque contribuire a mettere in tensione lo spazio sempre mutevole in cui si è trovata ad intervenire, sino a dissacrarlo, a scardinarlo per renderlo infine “altro da se”.
E come nel vestibolo michelangiolesco della biblioteca Laurenziana di Firenze, i possenti mensoloni sospesi, le colonne alveolate e la colata lavica della scalinata che raccorda il vestibolo con la biblioteca contribuiscono alla drammatizzazione di uno spazio avvertito come troppo angusto, allo stesso modo, gli spazi di Licia Galizia vengono provocati, sollecitati, arati, trafitti, solcati, negati e poi suadentemente riconfermati per essere restituiti a nuova figura e a nuova misura. Ed il collasso che l’artista sembra ingenerare non è soltanto visivo ma di equilibri mentali quasi a negare e ribaltare l’heideggeriano assunto, fin troppo abusato, secondo cui “poeticamente abita l’uomo” che ha attraversato in filigrana la ricerca della Modernità del secolo appena trascorso.
Ora, sembra suggerire Licia Galizia, senza miti consolatori e nostalgie regressive, è il caso di provare ad accettare l’instabilità, il mutamento, il percorso zigzagante o labirintico, l’ambiguità indotta dal ricorso sempre più frequente dell’ombra che annulla e poi disvela, il disequilibrio, lo scollamento, la sregolatezza pur tra serrate regole del gioco, la decostruzione senza ansie ricostruttive, come condizioni ormai ineliminabili del nostro essere nel mondo e del nostro operare.
La costante tendenza di Licia Galizia alla scientificità delle sue installazioni, appena stemperata dalla aleatorietà dei diversi risultati imprevisti ed imprevedibili, colloca il suo lavoro a pieno titolo nel solco di quella astrazione lirica, soprattutto portato avanti dagli astrattisti comaschi degli anni trenta come nelle condensazioni cromatiche di Veronesi attorno alle linee forza.
L’artigianalità, perseguita tenacemente attraverso le fasi di preparazione di ogni singola installazione, rimane lontana dalle esperienze proto-high tech di Dan Flavin, che negli anni sessanta si avvaleva di barre fluorescenti per definire la visibilità concettuale della parete, così pure rimane estranea alla Galizia la combinazione riconducibile agli stessi anni di testi ed oggetti a muro di Joseph Kosuth. L’uso di canaline e supporti metallici nella loro voluta ed insistita semplicità rimandano ad uno scenario concettuale proprio più di un contesto europeo, come si chiarisce bene da una citazione di J.Tinguely riportata nel catalogo dell’altra mostra di Galizia Sistemi del 2001.
Il muro, cioè pur nella sua apparente inespressività, diventa il corpo vivo e pulsante di linee guida che determinano la sua rinata praticità, lo trasformano in un campo d’azione spazio temporale in cui l’artista lascia il segno attraverso la traccia, affinché (un ennesimo gioco semantico) più non taccia: secondo la stessa Galizia infatti: specchiandosi nell’opera l’artista non ricerca le proprie sembianze, ma le tracce del se stesso fattosi altro da sé.
Queste tracce collimano con una percezione lineare del tempo che sempre secondo un coefficiente di ambigua duplicità rimandano al tempo circolare dell’hortus conclusus del luogo in cui si inseriscono. Se un artista come Jenny Holzer con i suoi Truisms, dell’uso di frasi banali e stereotipate ne fa materiale di lettura paradossale, in installazioni in spazi aperti, ciò è dovuto all’impatto soprattutto mediatico che i messaggi comportano nella civiltà del presente. L. Galizia invece ricorre ad un testo letterario perché la sua temporalità astratta diviene variabile della circolarità del luogo, in rapporto alla presenza assenza dello spettatore. Questa variabilità si focalizza in punti chiave della comunicazione, che da un intero discorso procede per segmenti fissi, che presi di per sé alterano la frammentarietà dell’esperienza temporale pervenendo ad una sorta di pidgin. E mentre del pidgin condividono la elementarità dell’informazione, nello stesso tempo documentano la complessità concettuale del testo.