Mettere in posa d’opera

di Francesca Lamanna (2000) | 2000

La tua opera è un gioco!

Osservando, interrogando e ascoltando Licia Galizia durante l’allestimento della sua mostra al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea.

Hai realizzato Sistemi appositamente per il Museo Laboratorio. Che influsso hanno avuto sul progetto la fisicità del luogo, la sua storia e il suo valore simbolico? Quale interazione si è realizzata tra l’opera e questo spazio espositivo così anomalo?
La prima attrazione è stata naturalmente lo spazio, ma questo spazio è anche il simbolo della sua storia. In questa mostra l’opera trasforma, costruisce, prende forma nello e dallo spazio, è fatta dio spazio.

In un’epoca che sembra dirigersi verso un sistema unico perché dai alla tua mostra il titolo Sistemi? Vuoi suggerire la possibilità di una convivenza di sistemi alternativi?
È fondamentale che sussistano la convivenza e il dialogo tra sistemi. Non si può non tener conto dei micro-sistemi, sarebbe come non considerare più l’individuo, ma solo la massa. Non mi ritengo una nostalgica, ciò che penso è che i nuovi sistemi (sociali, economici, tecnologici) debbano però essere a favore del sistema uomo.

Perché suggerisci di essere disposti all’avventura e riproponi il grande viaggio, in un momento in cui si celebra la fine dell’utopia?
La speranza è l’ultima a morire!…

In uno scenario dove trionfa la tecnica, dove i percorsi sono obbligati, le tappe prefissate e le mappe rigidamente tracciate, il tuo lavoro vuole testimoniare una scelta di rifiuto della realtà?
No. Io non rifiuto la realtà penso però che oggi ci sia bisogno di maggiore rispetto per le diversità e che un sistema che vuole essere globale deve necessariamente contemplare la coesistenza di tutte le sue parti e la tecnica e la scienza devono favorire e sviluppare le potenzialità dell’uomo, di tutti gli uomini.

Tu ricerchi una relazione intensa con il fruitore e persino un suo ruolo attivo, tuttavia nel rapporto con il tuo lavoro lo spettatore sembra trovarsi in una condizione di libertà vigilata. La promessa di fare viaggiare liberamente il visitatore verso tutte le direzioni non riesce a realizzarsi. Perché ti preoccupi di condizionarne i percorsi? È per proteggerlo che frapponi ostacoli o perché hai timori di perdere la direzione dell’opera dopo la sua messa in posa?
La caratteristica di tutta la mia ricerca è quella di interagire con lo spettatore che può mettere in discussione e modificare le mie scelte, ma non distruggerle. La barriera che divide lo spazio non vuole bloccare semplicemente il passaggio ma indurre, ad una più intensa percezione della realtà impedita.

Osservando la successione delle fasi della tua operazione artistica, mi è parso di assistere ad un processo logico deduttivo: dal progetto/idea discendono, senza possibilità di significative variazioni, i diversi tasselli della tua opera. È vera questa mia impressione oppure esiste tra esecuzione e progetto un feedback?
Certo che esiste un feedback, è inevitabile per me e soprattutto indispensabile. In questa ultima mostra, è vero, sono tornata a progettare in maniera rigorosa dopo un lungo periodo di intervento diretto nello spazio, ma l’ho fatto fondamentalmente per una necessità pratica. Ho deciso, in occasione della mostra Sistemi, di realizzare, o meglio far realizzare un modello virtuale dello spazio del Museo Laboratorio e della mostra stessa, per cui è stata necessaria la definizione e misurazione dettagliata dello spazio e dei vari sistemi. In realtà, poi, sia il modello virtuale che l’installazione nello spazio si differenziano dal progetto iniziale, poiché ho dato molta libertà interpretativa sia all’esecutore del modello virtuale che agli studenti dell’università che mi hanno aiutata nel montaggio della mostra. La cosa irrinunciabile per m,e è il rapporto con lo spazio reale, per cui non posso pensare di esaurire l’opera sulla carta; ogni volta che sono stata costretta a farlo mi sono sentita privata della libertà di scelta e non sono stata pienamente soddisfatta del lavoro che ho fatto. tutte le mie installazioni necessitano di un rapporto diretto, simbiotico con lo spazio.

Le tue opere sono radicate nel muro, fatte di materiali duri , nascono dalla disciplina di un progetto, hanno rigore geometrico e forme esatte, ma nello stesso tempo sono instabili, duttili e casuali. Attraverso il rito della fruizione, si trasformano, seppur all’interno di limiti. I tuoi percorsi-tracciati di strutture mutevoli si sviluppano verso esiti anche contrastanti: c’è la possibilità dell’incontro, ma anche un confine invalicabile.
È esattamente così, ma lascio osare ad altri scomporre il mio naturale rigore geometrico. È una sfida! Attraverso gli altri esploro guardinga le potenzialità del mio lavoro.

La tua opera è un gioco! Il metodo con il quale procedi nei tuoi lavori è fatto di regole e tecniche esattamente come un gioco, la tua opera prevede una relazione, un’interazione spontanea, ma regolata da norme prestabilite, proprio come il gioco. Quali sono le motivazioni che ti portano a cambiare le regole del Gioco? Il rosso e il nero: il colore è una necessità per creare un legame con la realtà, anzi diverse possibilità di realtà, addirittura opposte, o è un gioco?
Credo fermamente che le regole esistano per essere infrante! La realtà non è un gioco?
Il gioco non è dunque per te una futile pausa della vita quotidiana, come vorrebbe il fondamentalismo tecnologico oggi imperante, ma una critica di modelli convenzionali e di certezze, dimensione insopprimibile dell’esistenza umana. Come questo elemento ludico interviene nel tuo lavoro.

Prima di rispondere alla tua domanda voglio fare una precisazione: io ho parlato di gioco, o meglio ho usato il gioco per una operazione artistica nel marzo scorso, durante un laboratorio nella scuola elementare Santa Maria della Pace a Città Sant’Angelo e mi sono resa conto di come questo tipo di approccio sia stato efficace per aprire un dialogo profondo con i miei fruitori permettendomi, poi, di dire e fare altro. Credo che il meccanismo del gioco, nel suo aspetto più profondo, sia anche fra gli adulti una sostanziale metodo per abbattere le barriere, è un modo di interagire e interloquire con ciò che ci sembra inaccessibile e invalicabile. Però tengo a precisare che il mio lavoro non è un gioco o un intrattenimento ludico e mi auguro che non si limiti a questo primo livello l’approccio o l’azione del fruitore sul mio lavoro. Sarebbe troppo superficiale. Di gioco nell’arte parlano anche Umberto Eco, Filiberto Menna, ed altri luminari, riferendosi ad artisti e correnti degli anni ’60, che senza dubbio hanno suscitato in me il più vivo interesse sin dai primi anni di studio e mdi ricerca, ma è uno scritto di Gadamer tratto da Verità e Metodo che voglio citare a supporto della mia idea sul gioco:
«Il subjectum dell’esperienza dell’arte (…) non è la soggettività di colui che esperisce l’opera, ma l’opera stessa. Proprio su questo punto diventa significativo per noi il concetto di gioco. Il gioco ha infatti una sua essenza propria, indipendente dalla coscienza di coloro che giocano (…). Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma il gioco che si pro-duce attraverso i giocatori…».

La forza di Licia sta nella sua fragilità. È un ossimoro. Anche le sue “anime in ferro” del ’91 erano ossimori: il candore e la leggerezza dell’anima è il contrario della durezza e fisicità del ferro.