Inauguratasi recentemente presso la Livio Nardi Galerie di Norimberga la personale “Costruttivo aggettante”, dedicata all’opera di Licia Galizia, presenta un ripercorso antologico dei lavori dell’artista, dalle installazioni murali dei primi anni novanta alle più recenti composizioni policrome. Un’occasione espositiva questa – che verrà riproposta in settembre anche nell’ambito del Salone Ferrari/Maserati – che rappresenta non soltanto l’opportunità di confrontarsi con l’universo segnico di Licia Galizia ma che, soprattutto, esibisce con efficace chiarezza il progressivo delinearsi di una direzione di ricerca netta e coerente, come dimostra l’unitaria eterogeneità del corpus dei lavori selezionati per l’allestimento. Volutamente estranee agli schemi mimetici le opere di Licia Galizia, la cui assolutezza sembra rimandare al più raffinato concettualismo, privilegiano un’accezione dell’arte in quanto simulacro di valori segreti e inafferrabili, perseguiti in questo caso con un’insistita rinuncia alla forma, con un’assenza compensata, di volta in volta, dalla definizione di controversi spazi di intensità. Così i suoi metallici sistemi di penetrazione lineare dei corpi, siano essi soffitti, pareti, oggetti o, semplicemente, volumi inesistenti evocati proprio da quel senso del trafiggere che non provoca dolore ma ne suggerisce la presenza, anticipano la dimensione oggettuale dell’opera trasformando la forma in pura deformazione geometrica. Come linee di forza di boccioniana memoria le puntute traiettorie di Licia Galizia si misurano poi con la propria ombra sul supporto, stabilendo con essa un preciso rapporto dialettico e riscoprendo, in questa sorta di raddoppio indotto del segno, un senso tutto seicentesco della costruzione prospettica, in cui la linea geometrica, drammatizzata dalla luce, è come un dardo che rimbalza e si riflette restituendo una visione dinamica e molteplice o, se si preferisce, un impiego strumentale della linea d’ombra dai contorni nitidi, che chiarisce come l’asse di una meridiana un ricorso all’ombreggiatura di matrice giorgionesca, intervenendo all’interno del campo pittorico per assecondare o spezzare “la linearità dei corpi liberi nella foresta dei sogni e dei desideri più intimi”. La superficie di fondo è infatti il bosco oscuro di Licia Galizia, l’area in cui si addensano i significati, la vittima sacrificale immolata nel gesto performativo. Un gesto, quello della giovane artista, fatto di traiettorie e di correnti che, da disinvolte esibizioni autografiche si fanno, al momento dell’osservazione, descrizioni di un processo di crescita e di trasformazione dei segni rispetto a se stessi e all’universo interiore che li ha prodotti, come dimostrano le differenti modalità di relazione di Licia Galizia con il supporto, prima trafitto, poi aggirato, segnato, sopraffatto dal colore, tagliato e, infine, graffiato, nei suoi rotoli costretti dalle cornici policrome. Il gesto è per Licia Galizia una forza sottile e tagliente che, come un’energia vettoriale, procedendo per la via più breve diventa più rapida e incisiva, così come, allo stesso modo, l’essenza della sua opera si concentra al punto di ridursi ad una linea nella sua minima dimensione, giacché ne scalfisce la superficie e con essa lo spazio psicologico del corpo. Il gesto è poi uno schema di visione aperto, libero e variabile, in cui la libertà è vissuta come accettazione, come predisposizione all’evento casuale, al cambiamento, esibita non come forma di indecisione ma come volontà di introdurre nel lavoro un sistema flessibile di potenzialità estetiche. Va letta in questo senso la propensione di Licia Galizia all’interferenza, alla contaminazione disciplinare intesa non come traduzione egocentrica di un codice esterno riproposto all’interno del proprio registro linguistico ma come ricerca di una vera e propria sovrapposizione stilistica costruita nell’ambito di una relazione simmetrica che non lascia spazio alla prevaricazione, come dimostrano le “Interferenze di musica e scultura” realizzate con il compositore Paolo Marchettini, “Il testo retto” con le parole di Rosa Pierno presentato alla A.A.M. di Roma, lo “Studio 1 su volumi adattivi” in collaborazione con il compositore Michelangelo Lupone o il più recente intervento scultoreo su uno dei ponti di Vema, città di nuova fondazione proposta da Franco Purini nell’ambito dell’ultima Biennale di architettura veneziana. Infine, il lavoro di Licia Galizia appare intrinsecamente femminile, vi si rintracciano il rigore, la serietà, la fermezza ma anche la volubilità, l’instabilità e un profondo senso dell’ordine, della labile connessione tra le cose, come risulta evidente nelle sue “Cerniere”, in cui al rapprendersi, al distendersi del colore si accompagna un progressivo dissiparsi della linearità in favore di una più calibrata dimensione visivo-tattile, che all’intensità dell’artificio prospettico ottenuto attraverso l’affastellamento delle direzioni preferisce la superficie in quanto campo cromatico, in quanto luogo di lotta ormai risolta tra il segno e la materia, e che circoscrive l’azione entro un intervallo modulare che pare sempre più rappacificarsi con lo sguardo dell’osservatore e, forse, assecondare quell’atmosfera leonardesca, quell’aria “piena di linee rette e radiose, intersegate e intessute senza occupazione l’una dell’altra”.
di Valentina Ricciuti | 2007