La artista Licia Galizia scolpisce sui muri, dipinge su tavole, disegna su carta, danza, e scrive poesie.
La canalina di ferro zincato è da un certo tempo l’elemento/materia da essa usato in modo dominante: l’ho scelta come parola “iniziale” perché essa riassume – che l’artista lo sappia o non, l’abbia scelta inconsciamente o consciamente, non importa – riassume il nodo più attuale della sua opera cha è dato dalle due parole magiche sistema/ambiente.
Materia semilavorata e formata, oggetto trovato implasmabile (ready made materiale), la canalina di ferro zincato è uno dei primari materiali di quella che i teorici e studiosi dei non luoghi (da Marc Augé in poi) chiamanopanmetropoli:”cemento-sabbia-asfalto-acciaio-cristallo e canalina di ferro zincato”. Si tratta di materiali di cui è fatta la scena sulla quale ci muoviamo e agiamo, scene di transito o di autoesibizione, scene la cui orditura principale è costituita dalle reti elettromagnetiche, dalle reti infrastrutturali del passaggio corporeo, dalle reti cablate.
Tra tutti questi la canalina rappresenta le connessioni povere di materiali delicati o lastre povere (connette elementi di plastica. Vetro, perspex per coperture; o copre e “incanala” cavi”).
È proprio quando l’opera sistema/ambiente di Licia Galizia si precisa, essa sceglie e deve scegliere: non più “anime di ferro”, non più aste rigide e cerchi, che nelle loro icone estroflesse dalle pareti, lanciavano richiami e occhieggiamenti alla storia delle belle forme astratte delle avanguardie del primo novecento e che nella loro oggettività la scontentano perché la natura – il gioco delle ombre e luci riflesse – le rendeva instabili e impossibilitate a costituirsi in codice.
Sei o sette anni fa con due opere intitolate “configurazione di mutamento”, Licia Galizia fissa il potenziale minimo di controllo di un progetto processo di scambio e variabilità tra opere e pubblico.
La canalina, piccolo binario di ferro zincato diventa elemento di un immaginario e attuato sistema segnino, di un codice di interrelazione tra autore e attori (pubblico), di una interrelazione tra opera e ambiente. Il binario è per così dire strappato al suo compito connettivo fisico, ma con un nuovo “mode d’imploie”.
È il progetto/sistema di opera “apribile”.
Tutti sappiamo quanto la attrazione dell’altro dentro l’opera d’arte sia stata questione dell’identità stessa dell’arte contemporanea.
Tra illusione e realtà, tra simulazione e azione, tra astrazione e organicità, il margine di sovrapponibilità è stretto. Nella cultura più attuale, poi, la fluidità della circolazione e delle mescolanze invitano al possesso della cifra estetica epocale: disinibita, anostalgica, freddamente addolorata, in accomodante.
Postmodernamente dunque, con tutte peculiarità, la più giovane artista fa dell’idea della “opera aperta” (che Umberto Eco credeva di vedere, negli anni Sessanta e ce lo fece credere) una “opera apribile”.
Crea infatti prima, degli elementi “rudimentali articolati2 che poco spazio davano all’intervento, per poi arrivare ad elementi con “articolazione più precisa” e tale da fare percepire e vivere i suoi interventi in spazi/ambiente come variabili, flessibili, relativi.
Così l’opera può essere mutata dal pubblico, secondo un arco limitato di possibilità, ma possibilità esattamente esplorabili.
Nella stessa misura Licia Galizia rende esplorabili le barriere spaziali potenziali di un luogo dato, enucleandone segreti e invisibili anfratti percettivi.
Licia apre e però anche sbarra.
Non sorprende la collaborazione/realizzazione con Lucia Latour, la illustre coreografa del gruppo “altroteatro: Licia Galizia è una dei quattro artisti il cui “corpo” e il cui immaginario vengono messi in scena nell’opera Du vu du non vu e si attua finalmente, nel ’98 (anzi diciamo, si attua pienamente, trattandosi di una ricerca che risale alla fine degli anni sessanta), quell’”ambiente-spettacolo” nel quale appunto variabilità, precisione e flessibilità vigono e convivono, consentendo di godere dell’estraniamento veloce e degli effetti narcotizzanti dei flussi della città.
Amata proprio perché incontrollabile e scarsamente programmata, cioè “estetica”, un tempo luogo di esercitazioni plastiche organicamente utopizzate, oggi la città pretende e provoca una bellezza fredda, energica.
E una giovane scultrice mettendo delle piccole precise regole, ha potuto verificare la potenzialità esplosiva, affiorante, di percorsi personali ed emotive, come quando attizza in un gruppo di ragazzi il gioco caldo dello sciangài con le barre seriali del suo codice di controllo sistemico.
È a quel punto che l’artista può lasciare tranquillamente libero il campo.
di Simonetta Lux | 2000