Non siamo noi a percepire, è la cosa a percepirsi laggiù, non siamo noi a parlare, è la verità a parlarsi in fondo alla parola.
Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, 1964
La nostra tradizione culturale è stata più propensa a considerare le forme simboliche piuttosto che i processi socio-culturali che le determinano e quindi a valutare le forme come assiomi, come principi evidenti, piuttosto che come media, ovvero dispositivi che determinano i territori che abitiamo e nei quali costruiamo relazioni. Di conseguenza si è consolidato un punto di vista basato sulla contrapposizione tra forme e mondo, inteso questo come una rexextensacaotica e opaca alla quale dare senso attraverso una forma. Le nuove piattaforme digitali, basate sull’interattività, invece, spostano l’esperienza dalla contemplazione all’immersione. La svolta socio-antropologica che le accompagna, in campo estetico, consiste nella convergenza dell’atto creativo con la fruizione. Dentro questa svolta in atto cresce la ricerca di Licia Galizia e di Michelangelo Lupone sui Volumi adattivi. Una ricerca che affonda le sue radici proprio nella tecnologia in quanto forma sociale simbolica di una creatività che vive della relazione e ibridazione tra soggetti, tra organico e inorganico, tra fruitore e ambiente, tra sperimentazione e tradizione.
La tecnologia come forma sociale simbolica è la sostanza dei Volumi adattivi, da tener ben presente, perché la loro caratteristica consiste proprio nel darsi come “costruzione” in progress mai stabilita una volta per sempre. La cultura digitale è la condizione contemporanea del flusso e dell’instabilità dell’essere che sperimentiamo però attraverso l’automatismo di comportamenti socialmente mediati, in parte stabiliti dal funzionamento stesso dei media. Tali comportamenti automatici, creando abitudine, finiscono per consolidare il flusso mediale in una forma, sia pur solo apparentemente: infatti la solidità abitudinaria degli usi mediali può essere messa in discussione dalla reinvenzione del medium di cui l’arte è capace. Il lavoro di Galizia e Lupone si colloca nel solco della reinvenzione del medium.
La cultura rinascimentale ha costruito in Occidente l’immagine di un uomo che si muove in uno spazio neutro e vuoto che prendeva il posto di uno spazio animistico, come quello medioevale. E’ stato un passo indispensabile che ha permesso di pensare il corpo come macchina. L’anatomia umanistica attraverso il disegno ha descritto un meccanismo; ha trasformato il corpo da agglomerato misterioso in un artefatto riproducibile e spiegabile pur dentro un sistema di corrispondenze cosmologiche. Il corpo è diventato in grado di collegarsi col mondo, di sperimentare e quindi di inventare, cioè scoprire. Tuttavia questo modello epistemologico si è basato, proprio per condurre la natura sotto il controllo dell’uomo, su costruzioni analogiche fondate sulla contrapposizione tra un corpo ideale e un mondo vuoto che assumeva senso nella misura in cui prendeva forme equivalenti a quelle di un’ipotesi fissa di uomo. L’invenzione della stampa a caratteri mobili, il sistema gutenberghiano, secondo Marshall McLuhan, è stata l’invenzione di un dispositivo statico, ciò che definiamo “il testo” appunto, rispetto al quale l’uomo si muove, legge, interpreta, costruisce significati. La scrittura come altre piattaforme comunicative quali il quadro o la scultura, in quanto forme stabili, hanno implicato un punto di vista altrettanto centrato sulla fissità referenziale della fruizione. Su questi modelli epistemologici si è confermata una postura, un brainframe dal quale è derivata la concezione gestaltica della forma: l’oggetto distinto e distante dal soggetto che lo interpreta. L’oggetto isolato dentro una cornice concreta o metaforica.
A partire dalle onde radio lo spazio vuoto non ha più avuto alcun senso ed è stato sostituito dall’immagine di un campo di forze interagenti tra loro. La scomposizione cubista e la sensibilità futurista hanno reso questo cambiamento ma nella riflessione critica ha comunque prevalso il modello epistemologico antropocentrico, attraverso il punto di vista interpretante di un “io” ipotetico, che parlando in nome di un “noi” confuso, ristabilisce l’ordine dei valori. Perciò, anziché cogliere nel campo di forze la perdita del senso della cornice a favore di una performatività che, come di fatto è accaduto, ha progressivamente dilatato l’opera all’esperienza del mondo, si è preferito soffermarsi sulla specializzazione linguistica, alla ricerca di un’ideologica essenza dell’arte, da rintracciare, ad esempio, nella bidimensionalità della pittura, come è dimostrato dalla linea interpretativa che ha inventato per l’arte una sua autosufficienza separata dal mondo: o meglio, una sua specializzazione differente da altri artefatti.
I dispositivi fondati sull’interazione, conseguenza della rivoluzione digitale, hanno spostato ulteriormente l’esperienza estetica – nel senso proprio di processo cognitivo sensoriale – sul versante dell’immersione, dell’esperienza psico-somatica e quindi della presenza attiva del corpo del fruitore, piuttosto che sul versante umanistico della contemplazione e della lettura della forma. Tuttavia, il modello umanistico è andato ben aldilà dell’umanesimo storico perché aveva improntato la cultura dell’“hommelitteré’” (come lo definisce Derrick de Kerckhove). Non si tratta quindi del “letterato” (lettré) ma del “litteré” che, nel neologismo di de Kerckhove, indica l’uomo semplicemente assuefatto all’alfabeto e, di conseguenza, colui che interpreta su quel modello percettivo/cognitivo tutte le sue esperienze, anche quelle molto diverse per natura tecnologica.
L’immersione avviene dentro uno spazio apparentemente illimitato, che sostituisce al modello chiuso del testo quello aperto della performance ma che, comunque, comporta una serie finita di possibilità. Prima delle piattaforme digitali, la dimensione illimitata dell’immersione apparteneva piuttosto alle metafore, all’ordine dell’allegoria neo-barocca che affondava le sue radici nello spettacolo metropolitano, come lo hanno descritto Georg Simmel e Walter Benjamin. C’era immersione negli stimoli ripetuti della metropoli che Simmel interpretava in anticipo sulla stessa sinestesia delle avanguardie artistiche, e nel “sex appeal dell’inorganico” che Benjamin riconosceva nella qualità “sensibilmente sovrasensibile” delle merci esposte, come le aveva interpretate Marx nel primo libro del Capitale. Un’incisione famosa di Grandville ha visualizzato in modo efficace l’argomento, illustrando le merci che si animano e fuoriescono dalle vetrine dei Passages parigini, sporgendosi incontro a passanti stupiti. L’inorganico interagiva, immaginificamente, con l’organico e viceversa.
Parliamo, propriamente, d’interazione quando facciamo riferimento a sistemi che rispondono in modo deterministico all’azione dell’utente in conseguenza di un programma. L’utente in questo caso si trova di fronte a un organismo complesso ma finito. L’utente dispone di un testo non sequenziale, né trasparente alla percezione e quindi apparentemente non-finito, come un ipertesto ad esempio, rispetto al quale ha una libertà di movimento che si svolge comunque all’interno di un numero stabilito di possibilità concrete. E’ questo il passaggio dal sistema analogico delle corrispondenze a quello digitale delle connessioni interattive che ci consente l’esperienza di uno spazio denso, da abitare performativamente attraverso le nostre azioni. Uno spazio, dunque, che non è più fermo di fronte a noi ma si muove e ci viene incontro, come è già stato – da un punto di vista spettacolare e allegorico – per l’immagine televisiva, acustico-tattile piuttosto che astratto-visiva (riprendendo ancora McLuhan). Il processo avviato dalla metropoli, che unisce insieme metamorfosi barocche, oggetti parziali e slittamenti di senso di tipo surrealista, avvia in modo significativo la ridefinizione dei soggetti, agendo direttamente sui processi cognitivi dell’uomo, in un senso che già si può intuire come post-umano ma che mantiene pressoché inalterati nella sostanza, anche se non nell’apparenza, i ruoli distinti dell’autore e del fruitore: le regole del testo, il rapporto tra un “io” che si esprime in nome di un “noi” che di conseguenza, in quel testo, si riconosce. E’ la centralità della “regìa”. Il ruolo degli attori sociali, autore e pubblico, mantiene lo stesso rapporto di forza pur dentro una mutazione notevole rispetto alla stabilità del testo scritto e anche alle sue capacità di circoscrivere un immaginario condiviso.
Dentro questa storia, così sinteticamente delineata, i Volumi adattivi di Licia Galizia e Michelangelo Lupone sono un passo ulteriore notevole, poiché sono sistemi in grado di evolversi come un qualsiasi organismo vivente. Non c’è più un numero limitato anche se invisibile di risposte allo stimolo, come capita nell’interazione, bensì le risposte del sistema adattivo sono impredicibili o almeno parzialmente tali. Per questo si parla si adattività, cioè di un’evoluzione elastica rispondente alle trasformazioni dell’habitat. Di conseguenza le opere sono dispositivi caratterizzati da:
1) capacità di comunicazione a distanza delle opere stesse, per cui una diventa testimone dell’attività delle altre;
2) utilizzo di materiali cangianti influenzati nel colore e nelle forme, capaci di estendersi e contrarsi nonché in grado di trasformare la luce;
3) capacità delle opere di “nutrirsi” dell’ambiente attraverso la dotazione di una sensoristica che permette loro di osservare, ascoltare e percepire il mondo circostante, in particolare le variazioni di luce e di forme, la presenza di profumi e fragranze, come fossero dotate di occhi, orecchie, naso e tatto.
Sembra di risentire, attraverso la cultura digitale, l’attuazione del Manifesto futurista del tattilismo (1921) dove, tra l’altro, Marinetti scriveva che il tattilismo avrebbe consentito la scoperta di altri sensi rispetto a quelli noti, cioè di un’altra sensibilità oltre le abitudini. Tuttavia, ora, nonostante l’assonanza, non è tanto determinante l’espansione dell’ iper-soggetto futurista quanto la ricollocazione del soggetto in un habitat connesso e partecipativo e, di conseguenza, anche l’oggetto-opera diventa modello di una differente operatività dentro un sistema che cresce non per “evoluzione” ma per “devoluzione”. Questo differente modello di sviluppo, per devoluzione anziché per evoluzione, indicato da Roberto Marchesini come proprio del post-umanesimo, è sostanziale: “Se l’evolvere è un cercare armonia ed equilibrio delle parti in un alveo unitario e unificante, il devolvere è un enfatizzare le differenze facendole emergere come entità a se stanti.” La devoluzione implica uno scambio con l’ambiente che non avviene per assimilazione ma per adattamenti, appunto, che producono forme inedite di esistenza.
Detto altrimenti, se la ricostruzione futurista voleva essere il nuovo stile del mondo moderno, i dispositivi adattivi di Galizia e Lupone non costruiscono uno stile ma consentono processi attraverso sistemi pensati per rendere un diverso modo di essere e di operare. La differenza tra crescita per evoluzione o per devoluzione, quindi, marca bene lo specifico dei Volumi adattivi. Secondo il modello evolutivo, l’individuo tende ad assimilare a sé l’habitat in una auto-poiesi che dispiega le proprie qualità intrinseche per acquisire coesione interna e per depurare le alterità esterne di ciò che non è ontologicamente compatibile, per poterle usare come materiale costruttivo del sé. Così il soggetto aumenta di volume, contemporaneamente purificandosi, essenzializzandosi in un’autosufficienza autarchica. Ciò vale anche per gli oggetti che del soggetto sono emanazione, in particolare le opere d’arte per il loro valore di modello.
Nell’ottica devolutiva, al contrario, la soggettivitànon si dispiega ma si disperde e non consiste ma si disloca in una pluralità di locazioni Ne deriva un’identità multividua che non cerca la coesione individuale bensì l’integrazione co-evolutiva con l’alterità, accettando di definirsi dentro un percorso di contaminazione. Come l’analisi del postumano di Marchesini contiene metafore sociologiche proprie del glocalismo, così le opere di Galizia e Lupone sono l’effetto di una sensibilità, e quindi di una ricerca estetica sperimentale, che si riconosce nella convergenza delle differenze più che nella sintesi a priori delle forme.
Ne consegue una corrispondenza molto interessante tra opera intesa come dispositivo adattivo e soggetto inteso come multividuo. Il multividuo, che nel caso di Galizia e Lupone è un volume sonoro, rende la frammentazione dispersiva attraverso delle connessioni devolutive che noi percepiamo, visibili e sonore, nei volumi. E questa è una differenza importante anche rispetto alle pratiche più dilatate di origine Fluxus.
Nella molteplicità pressoché indefinibile di soluzioni proprie di Fluxus, abbiamo recepito soprattutto l’arte dell’indeterminazione, cioè un’attitudine del possibile. L’accento marcato sulla forza dissipativa era necessario per la liberazione dalla forma in quanto sintesi a priori, frutto di un progetto calcolato secondo il modello dell’assimilazione operata dal soggetto verso ciò che lo circondava e restituito alla contemplazione nella forma di opera d’arte.
Nei Volumi adattivi, al contrario, c’è una presenza “solida” ma che avviene per capacità adattive sempre mutevoli. E’ il flusso che diventa forma e suono senza, però, congelare il flusso in un modello rigido e permanente, quindi impermeabile ad altri stimoli.
Di conseguenza, quanto nell’interazione era solo suggerito dall’assenza di visibilità completa del testo, per cui il fruitore agiva in un contesto comunque determinato anche se apparentemente non lo sembrava, nel sistema adattivo, invece, l’indeterminazione è costituzionale. Sono queste caratteristiche che rendono la ricerca di Galizia e Lupone un esempio importante dello scenario non meglio definibile, per ora, che post-umano, poiché entrambi lavorano non sulla costruzione di nuove forme simboliche del mutamento, cioè non creano sintesi formali che per analogia evochino nuovi modelli di esistenza, ma producono dispositivi in grado di consentire l’esperienza estetica come atto di mutazione in corso, di ibridazione. Infatti, secondo il modello definito da Marchesini post-umano, la cultura è un non-equilibrio creativo, un continuo spostamento di soglia che facilita i processi ibridativi con i vari tipi di alterità. Le ibridazioni, inoltre, quasi sempre, danno origine a una funzione completamente nuova e inattesa che si realizza nella perfomance ibridante. Dentro questa chiave di lettura, le possibili derive implosive dell’atto creativo, a ben vedere, sono piuttosto da leggersi come un “naturale non-equilibrio creativo” del processo di costruzione sempre in atto, e quindi non pre-vedibile, del modello di umanità.
I Volumi adattivi sono strutture vocazionalmente ibridanti la cui “a-formalità” (o “informe” come probabilmente avrebbe detto George Bataille) consiste in un non-equilibrio in quanto strutture aperte e processuali.
E’ facile distinguere la materia dalla forma se esaminiamo un solo oggetto, sosteneva Bataille, ovvero se pratichiamo un’astrazione violenta dalla complessità dell’esperienza della realtà che si presenta sempre come connessione complessa. Tutte le forme di idealismo derivano da questa astrazione che separa una singolarità da quell’insieme di relazioni che invece la costituiscono problematicamente. Il basso materialismo, il materialismo cioè che si libera della sua componente idealista, più che un concetto è un modello operativo che osserva la devoluzione partecipativa degli esseri nelle loro varie forme d’esistenza. Per questo, insieme allo sviluppo devolutivo, il basso materialismo è un’altra caratteristica che aiuta a comprendere la natura dei Volumi adattivi.
Volumi plastici che possono mutare – e soprattutto imparare – in conseguenza dell’intervento del pubblico, volumi che producono suoni in base alla reazione dei loro materiali in grado di memorizzare e quindi avviare processi non del tutto gestiti dall’autore, anche se da questo innescati. Capacità delle opere di “nutrirsi”, come già detto, dell’ambiente attraverso la dotazione di una sensoristica che permette loro di osservare, ascoltare e percepire il mondo circostante. Nature ibride, senza soluzione di continuità tra essenza e protesi.
Non è più solo il soggetto, dunque, che guarda, tocca e interagisce ma è il feedback che provoca una crescita reciproca e differente di organico e inorganico insieme. L’opera in questi casi non si dà come termine finalistico, come proiezione autoritaria di un modello antropologico fisso che si oppone, come un’isola rocciosa, ad un mare caotico.
Cosa diventa allora l’esperienza estetica? La rivoluzione digitale comporta differenti modelli di esperienza cognitiva e quindi estetica che sembrano persino recuperare le componenti animistiche pre-umanistiche, almeno riguardo all’immersività che tuttavia qui non include la soggettività nella trascendenza bensì la esprime nella sua devoluzione immanente. Ad esempio c’è una consonanza indicativa tra quanto proposto da Galizia e Lupone e l’interconnessione che Howard Rheingold ha considerato a proposito della tecnologia senza fili e l’accesso mobile alla rete, ovvero l’emergere di una forma di intelligenza diffusa come quella rappresentata dalle Smart Mobs:milioni di persone che usano strumenti di comunicazione mobile sensibili alla posizione in ambienti pervasi da elementi informatici. L’esperienza estetica attivata da Galizia e Lupone, come le Smart Mobs di Reinghold, “ridisegna” il soggetto fuori dai limiti del suo corpo in un’interconnessione che assomiglia di più a quella che Maurice Merleau-Ponty ha chiamato “carne del mondo”. I contorni indefinibili di questa carne comprendono vari aspetti che potremmo ravvisare già nel lavoro creativo basato non più sul singolo ma sulla collaborazione tra un artista visivo e un compositore musicale, nonché sulla molteplicità di competenze scientifiche richieste, ma anche nella capacità del loro rispettivo lavoro di testare le possibilità produttive del disturbo e dell’interferenza, come Galizia ha già provato nel progetto Interferenze, o la capacità di ibridazione tra bene culturale e sculture sonore, come Lupone ha realizzato, tra l’altro, nella quattrocentesca casina del Cardinal Bessarione a Roma, con i suoi Olofoni. Esperienze estetiche che rendono percepibile quella profondità che è la dimensione specifica in cui le cose, che restano incomponibili, si incontrano.
La tecnologia, pertanto, non è affatto l’ennesimo nuovo strumento con cui ribadire vecchie forme stabili da contemplare, ma una logica differente della creatività e della ricezione che affonda le radici in quella tradizione dell’invenzione che ha pure dato vita all’umanesimo ma che oggi consente di sperimentare un modello più ampio di umanità, attraverso l’esperienza di saldature organizzate e variabili di più entità, per cui anche il gioco antico delle arti con i materiali, le forme e le proporzioni, prende l’aspetto più attuale di sperimentazione sensoriale di nuovi modelli ibridi di esistenza.