Uno dei temi fondamentali di tutta l’arte del nostro secolo è quello dello spazio; le avanguardie storiche, sconfitte dalla loro stessa ambiziosa idea di “costruire un universo in forma d’arte” , hanno demolito le teorie filosofiche – ma anche quelle “scientifiche” – che creavano il confine di questo concetto delineandone i pieni, i vuoti, gli intervalli e persino le dimensioni.
In quest’ottica, gli spazi bianchi del libro di Mallarmè, le pause di Debussy, il nulla di James, i vuoti di Archipenko ed anche il tempo perduto di Marcel Proust non sono soltanto delle opere preziose ma soprattutto delle teorizzazioni diverse e molteplici – come molteplici erano gli ambienti di pensiero da cui erano emerse – il cui comune denominatore risiede nella rivalutazione degli spazi vuoti.
L’equiparazione tra pieno e vuoto, positivo e negativo, silenzio e parola, il loro essere ugualmente essenziali alla creazione dell’opera rappresenta il fondamento di numerose ricerche spaziali contemporanee; nondimeno, e soprattutto a causa della imperante virtualità tecnologica e della incessante superproduzione di immagini – che trasformando il concetto di realtà ne hanno intaccato anche le coordinate spazio-temporali -, il problema dello spazio, nelle indagini di alcuni giovani artisti, assume forme differenti. Benché in maniera del tutto generale è possibile delineare almeno tre diverse tendenze: gli artisti che riflettono sul valore fluttuante delle cose e coltivano essenzialmente il linguaggio delle immagini senza spazio, gli artisti che indagano, in maniera tautologica, sul concetto filosofico di spazio, ed infine gli artisti che sperimentano tale concetto (con lo sguardo alle regole delle avanguardie) e – parafrasando un’espressione di Heidegger – fanno-spazio.
Licia Galizia parte dalla geometria (intesa come la “scienza intelligente” che ci permette di percepire e quindi di dare una visione razionale, oggettiva dello spazio); le sue prime opere – esposte nel 1990 in una collettiva alla Galleria Eralov – erano delle semplici strutture geometriche che segnavano letteralmente il movimento nello spazio consentendone – o più precisamente consigliandone – la ripetizione.
Dietro lo spazio, a quanto pare, non vi è nulla a cui esso possa essere ricondotto. Di fronte ad esso non è possibile distrarre la propria attenzione versi qualche altra cosa. Ciò-che-è-propriodello spazio deve mostrarsi da se stesso. Ma ciò-che-è-proprio dello spazio lo si può ancora dire?
Nei lavori seguenti l’analisi del concetto di spazio si affranca consapevolmente dal bisogno di oggettività che contraddistingue le prime opere. L’artista rinuncia alla neutralità e alla bidimensionalità della parete – non più utilizzata come supporto ma come elemento reale che sottintende ad altre dimensioni – e, contemporaneamente, fonda quel rigoroso ordine formale caratteristico della sua ricerca; un ordine formale il cui proposito non è quello di mostrare un modello matematico del mondo, bensì di scandire sulla parete, in virtù dell’incisività dell’esperienza soggettiva, le tracce dell’instabilità strutturale della visione.
Da questo punto di vista la prima mostra personale (1992) alla Galleria Mara Coccia è emblematica: l’istallazione – definita a ragione da Fabio Mauri, nel testo in catalogo, “scultura a fresco” – è composta da una serie di tagli, buchi, vuoti, pause e bacchette di ferro a modulo fisso che costituiscono un sistema flessibile – o di molteplici visioni – subordinato all’azzardo di chi (anche soltanto con il pensiero o con lo sguardo) intende mettere in atto una diversa combinazione. Lo spazio non è più soltanto una delle coordinate fondamentali della esperienza artistica, ma diviene un elemento reale ed insieme instabile che ognuno di noi può abitare e modificare a suo piacimento (come accaduto quando spostiamo i mobili della nostra casa).
Finché non ciò che è proprio dello spazio anche il discorso intorno allo spazio è destinato a restare oscuro. Il modo in cui lo spazio sorregge e attraversa l’opera d’arte resta per ora nell’indeterminato.
Nei suoi lavori Licia Galizia do spazio a ciò che il neurofisiologo Maturana chiama multiversi contrapponendolo all’universo e che implica la nozione che “l’esistenza dipende costitutivamente dall’osservatore e che ci sono tanti domini di verità quanti sono i domini d’esistenza che questi realizza nelle propri distinzioni”; la partecipazione diretta dell’osservatore, infatti, dà luogo a quelle strutture instabili che sono le sue opere, dove il rigore compositivo si coniuga perfettamente con una visione in continuo mutamento.
Configurazione di un mutamento è il titolo della mostra che Licia Galizia ha tenuto – nell’ambito della rassegna dedicata ai nuovi linguaggi – presso la Galleria A.A.M. nell’aprile dello scorso anno: un’opera di oltre undici metri che si snoda lungo le pareti della galleria secondo un andamento lineare, che costituisce – si costruisce – lo spazio/luogo che abita. Tale costruzione, benché “sorretta” da un progetto preciso ma che non ha nulla a che fare con la precisione spaziale architettonica, traccia – ma forse sarebbe meglio dire cuce –i confini di un nuovo spazio, lo spazio che si fa, che è l’opera d’arte. Nelle opere precedenti, l’artista scriveva il suo progetto sulla parete creando una stretta connessione – giocata sull’ampiezza delle possibilità percettive – tra lo spazio dell’opera e il luogo espositivo, in Configurazione di un mutamento lo spazio e il luogo coincidono nel corpo dell’opera.
nel farsi corpo proprio della scultura il vuoto entra in gioco nel modo dell’instaurare luoghi di cui arrischia e progetta l’apertura.
In questo lavoro sul corpo dell’opera, lo spazio diviene, tra le altre cose, il riflesso – o, forse, il simbolo – del proprio spazio interiore. In questa ultima mostra (ancora una volta intitolata Configurazione di un mutamento), Licia Galizia ha abbandonato la cultura del progetto, preferendo intervenire direttamente – e temporaneamente – sul luogo – e nel tempo – espositivo. Il mutamento è, anche, la consapevolezza che le misure e i moduli che delineano l’immagine del mondo cambiano inaspettatamente e: “Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa; strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.”
(da “configurazioni di un mutamento”)